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A opção pela qualidade do azeite brasileiro – Cantinho do Azeite
La UE prevé caídas de las exportaciones de aceite de oliva. Revista Olimerca.
Considerazioni sull’uso del rame in agricoltura
Introduzione Uso del rame in agricoltura Il rame è un oligoelemento biologicamente essenziale per tutti gli esseri viventi: ioni Cu sono componenti insostituibili di enzimi, fattori di trascrizione e altre strutture proteiche. Senza rame non c’è vita (microbica, animale, vegetale), e sono noti disordini fisiologici dovuti, appunto, alla carenza o insufficiente disponibilità di tale minerale. E’ però vero che questo elemento è responsabile di effetti tossici se si ritrova nelle cellule al di sopra di determinati valori soglia. Normale costituente della dotazione minerale dei suoli, con ampia variabilità, a concentrazioni dell’ordine di alcune decine di mg kg-1 (con soglia di attenzione a 100 mg kg-1 ) e inserito in numerosi e complessi cicli biogeochimici, il rame ha avuto da sempre infinite utilizzazioni industriali in virtù delle sue proprietà. In agricoltura ne sono note diverse applicazioni, in particolare come fertilizzante per le piante coltivate e integratore nella dieta di animali in produzione zootecnica. Ma è soprattutto come anticrittogamico ad azione fungicida antiperonosporica che il rame trova da 140 anni impiego massiccio, specialmente nel vigneto. L’elenco dei patogeni contrastati con successo da interventi con prodotti rameici è comunque molto articolato; oltre agli oomiceti, sono sensibili molti generi fungini; interessante (e pressoché esclusiva) anche l’azione batteriostatica. Efficacia, affidabilità, economicità e facilità di impiego rappresentano i fattori che attribuiscono ai prodotti del rame importanti ruoli nel protocolli della difesa antiparassitaria in agricoltura integrata, ma è nei disciplinari biologici che esso riveste un ruolo al momento pressoché insostituibile. Il rame distribuito sulle piante si deposita sulle foglie e sugli altri organi epigei, e non viene assorbito dai tessuti vegetali. Di conseguenza, la totalità del prodotto finisce, nel tempo, per raggiungere gli orizzonti superficiali del suolo, vuoi per fenomeni diretti di deriva al momento dell’applicazione, vuoi per dilavamento dagli organi trattati, vuoi, infine, per la fisiologica caduta a fine stagione delle foglie che presentano ancora residui. In breve, il bilancio di massa vede modeste asportazioni (qualche decina di grammi per ettaro) da parte della vegetazione (si concentra principalmente negli apparati radicali), a fronte di massicci input fitoiatrici antropici (un trattamento normalmente apporta circa 1 kg di rame per ettaro). Merita di essere segnalato il fatto che sono diffusi fertilizzanti a base di rame, consentiti anche dai disciplinari biologici, che, di fatto, servono alla “difesa occulta” (illegale) delle colture, tenuto conto che i terreni italiani di norma non mostrano carenze di questo elemento. La presenza di concentrazioni rilevanti di rame nel terreno innesca una serie di problemi, a cominciare dal rischio della fitotossicità. Da tempo le autorità ambientali comunitarie hanno rivolto attenzione all’impatto ambientale di tale metallo pesante; ciò in virtù del fatto che esso soddisfa due criteri che caratterizzano le sostanze “persistenti, bioaccumulative e tossiche”, vale a dire: (a) il tempo di dimezzamento è superiore a 120 giorni (in realtà, essendo un elemento minerale, il concetto di “tempo di dimezzamento” non ha alcun senso); (b) la concentrazione senza effetti osservati a lungo termine per gli organismi acquatici è inferiore a 0,01 mg/l. Perplessità derivano, ad esempio, dall’accertata sensibilità dei lombrichi alla sua azione nociva. In conseguenza di ciò il rame, già dal 2015, è considerato “sostanza attiva candidata alla sostituzione” (è già bandito in numerosi Paesi) e, temporaneamente, sino al 2025 è fissato in 4 kg per ettaro l’apporto annuo consentito (Regolamento di esecuzione 1981/2018). Ciò implica un ‘arricchimento’ dell’ordine di almeno un paio di milligrammi di rame per chilogrammo di suolo (top layer). E’ ammesso, per le colture poliennali, il principio di flessibilità del ‘lissage’, sì da permettere un carico di 28 kg ha-1 ‘spalmato’ in sette anni. Il provvedimento – inevitabilmente frutto di animato dibattito, in considerazione della pletora di soggetti portatori di interesse sul tema – ha un impatto notevolissimo sulla nostra agricoltura. In questo breve documento vengono riassunte le principali criticità sollevate, con particolare riferimento alla viticoltura biologica, che appare come il comparto produttivo maggiormente coinvolto; infatti, per i produttori integrati sono disponibili numerosi principi organici di sintesi, protettivi, citotropici o translaminari, che garantiscono una adeguata protezione. Punti di criticità Quello che conosciamo nel suolo e nella pianta Il rame è un microelemento nella nutrizione vegetale (come già menzionato) e perciò deve essere assorbito dalla pianta in quantità tali da soddisfare i relativi bisogni fisiologici; se assorbito in quantità superiori può dare dei fenomeni di tossicità. Comunque i fenomeni di carenza come quelli di tossicità dipendono dal tipo di suolo e dal tipo di pianta. Nel suolo è importante la quantità di rame disponibile e non quella totale. La presenza di sostanza organica (il rame ha una forte affinità con i composti organici formando complessi metallo-organici molto stabili), il pH del suolo (il rame precipita a valori di pH alcalini; i valori di pH del suolo nei quali il rame è facilmente assorbito dalla pianta sono quelli sotto 6,5 anche se esso è assimilabile sino a pH 7,5) e le condizioni riducenti (per esempio, nei terreni sommersi può prevalere la forma monovalente, più mobile, rispetto a quella ossidata -divalente-) influenzano la disponibilità di questo elemento. Il tipo di pianta è anche importante perché alcune specie presentano meccanismi che impediscono l’accumulo dell’elemento. Le piante in genere presentano un contenuto di rame che varia da 2 a 20 mg per kg di sostanza secca, ma di norma è la radice l’organo che accumula il rame, perché i polisaccaridi del sistema apoplastico formano dei chelati stabili. Dal punto di vista della sicurezza d’uso, l’European Food Safety Authority ha ripetutamente preso in considerazione il rame (EFSA 2013, 2014, 2017, 2018°, 2018). L’ultimo documento disponibile (EFSA Journal 2018;16(3):5212) prende in considerazione i residui massimi ammissibili (MRL) di rame ai fini della valutazione del rischio. I calcoli sull’esposizione cronica hanno consentito di rivalutare i limiti dei MRL precedentemente fissati diminuendoli considerevolmente per un certo numero di colture/alimenti (broccoli, cavolfiore, mais dolce, endivia belga, albicocche etc) lasciandone alcuni quasi invariati (frutti di bosco) od aumentandoli (mele, pere, ciliegie, pesche, uva da tavola). Purtroppo moltissimi alimenti/colture, che pur vedono diminuire ed in pochi casi aumentare (uva da vino ad esempio) i LMR ammissibili, devono essere nuovamente rivalutati con ulteriori affinamenti di valutazione del rischio ex post dopo gli ulteriori monitoraggi e test di campo identificati dall’EFSA. I singoli Stati Membri hanno il compito di identificare le strategie di mitigazione del rischio, ai rispettivi livelli nazionali, dopo l’acquisizione dei risultati. Negli Allegati del lavoro sopracitato sono presenti i dati e i riferimenti ad ogni singola coltura/alimento. Come migliorare l’uso del Cu Il bilancio di massa dei trattamenti rameici nel vigneto è decisamente critico. Molto più della metà del prodotto distribuito finisce di norma direttamente fuori bersaglio, per fenomeni di deriva. Azioni di miglioramento riguardano: (a) approcci di “viticoltura di precisione”, con applicazioni tecnologiche capaci di concentrare sul bersaglio la distribuzione degli agrofarmaci (“spot spraying”; “selective targeting”); (b) impiego di “pannelli recuperatori” per ridurre la dispersione ambientale; (c) miglioramento delle prestazioni delle formulazioni, con il ricorso alle nanotecnologie (da verificare però la loro compatibilità con i disciplinari biologici – v. art. 7.c del Regolamento (UE) 848/2018). Altro parametro per il quale si intravedono margini di miglioramento è quello relativo al timing degli interventi. Sistemi di supporto alle decisioni, basati su protocolli di scouting (monitoraggio). Tra le possibili soluzioni per ridurre il potenziale patogeno di Plasmopara possiamo citare l’applicazione di schermi ‘antipioggia’ a copertura del filare. E’ noto che le zoospore dell’oomicete necessitano di un velo di acqua liquida per raggiungere, nuotando, lo stoma e iniziare il processo infettivo. Ovvie considerazioni di ordine economico, paesaggistico e biologico (questi manufatti sembrano creare condizioni microambientali favorevoli agli attacchi di oidio) sembrano rendere scarsamente proponibile questa opzione. Infine, poiché la biodisponibilità e la mobilità del rame nel terreno sono dipendenti da fattori chimici e fisici, in casi specifici è pensabile di intervenire con operazioni di bonifica in situ basate su modificazioni della reazione (es. con calcitazioni; a pH alcalini Cu è immobilizzato) e con apporto di sostanza organica ( come già riportato, il rame forma facilmente complessi organo-metallici con la sostanza organica venendo in questo modo immobilizzato). Improponibili, invece, azioni di mescolamento attivo, laterale o verticale, eventualmente suggeriti dal fatto che il rame si concentra negli orizzonti superficiali. Alternative al Cu (a) Altri agrofarmaci ad azione antiperonosporica E’ semplice elencare i requisiti richiesti a un antiperonosporico utilizzabile nel biologico: (a) natura chimica non artificiale; (b) efficacia, prolungata nel tempo, possibilmente in grado di esplicare azione anche contro altri patogeni, presenti o di temuta introduzione; (c) sostenibilità ambientale; (d) profilo tossicologico adeguato; (e) destino ambientale favorevole; (f) assoluta indifferenza nei confronti delle proprietà qualitative dell’uva e del vino da essa prodotto; (g) tollerabilità da parte della vite e assenza di rischi di fitotossicità. Ovviamente non può essere ignorato l’aspetto economico. Al momento risultano registrati (e pertanto utilizzabili) soltanto preparati a base di olio essenziale di arancio dolce. In Toscana soltanto una minima frazione delle aziende biologiche fa ricorso a questo formulato, per lo più in associazione/alternanza ai rameici. La comunità scientifica è attiva da tempo alla ricerca di nuove molecole, attingendo a composti naturali (es. laminarina, chitosano, argille) elicitori di reazioni fisiologiche interessanti; essi non sono al momento registrati come agrofarmaci antiperonosporici, con l’eccezione di cerevisane, induttore di resistenza composto da estratto inerte ottenuto dalle pareti cellulari di Saccharomyces cerevisiae. Inutile ricordare che tali nuovi prodotti dovrebbero essere innanzitutto approvati per l’agricoltura generale, e poi inclusi tra quelli consentiti in biologico. Anche le prospettive legate alla possibile utilizzazione di bioagrofarmaci devono confrontarsi con una serie di requisiti al momento apparentemente insormontabili, che spaziano dalla scarsa sopravvivenza sulla fillosfera/carposfera, alla produzione di metaboliti secondari di interesse ecotossicologico, per non parlare degli elevati costi di produzione. Meritevole di attenzione è il ruolo dei fosfonati (di sodio o potassio), registrati come fertilizzanti fogliari, ma con effetti che in alcuni casi permettono di essere utilizzati in vigneto anche da soli, o quantomeno ridurre l’utilizzo del rame, essendo capaci di azione tossica diretta nei confronti del patogeno coniugata all’attivazione della resistenza della pianta; trattandosi di prodotti di sintesi non sono comunque utilizzabili in agricoltura biologica. (b) Materiale vegetale resistente alla peronospora Nessun dubbio che l’allevamento di materiale resistente ai patogeni riduca i costi di produzione e quelli ambientali. Mentre tutti i vitigni di Vitis vinifera (con una unica eccezione) sono altamente suscettibili alla peronospora, importanti fonti di resistenza sono facilmente reperibili in numerose specie americane (e in una asiatica) del genere Vitis. Incroci interspecifici sono stati realizzati da tempo, ma i vini prodotti dagli ibridi che ne derivano di norma sono ben lungi dal soddisfare i requisiti di ordine qualitativo tipici della vinifera in purezza e legittimamente attesi dai consumatori. Recentemente l’argomento ha ricevuto crescente interesse, anche in virtù dei progressi compiuti dalle discipline genetiche, e lo stato dell’arte può essere così riassunto: interessanti vitigni PIWI (Pilzwiderstandfähige) sono ormai disponibili e, a seguito di successivi reincroci (genetica convenzionale), la frazione di genoma non-vinifera è diventata modesta, riducendo (ma non annullando), quindi, le perplessità di fondo; alcune regioni del Nord-est italiano hanno già autorizzato la loro coltivazione; la normativa nazionale esclude però che essi possano entrare nei disciplinari di vini DOC/DOCG e rimangono incertezze su alcune irrinunciabili caratteristiche organolettiche dei vini (“identità sensoriale”, ad esempio in relazione a bassi livelli di tannini, colore, acidità, presenza di metanolo), così come su taluni aspetti fisiologici (precocità, risposta fogliare a fillossera); di norma la campagna antiperonosporica su questi vitigni prevede non più di un paio di trattamenti specifici; moderni approcci biotecnologici (cisgenesi/genome editing) consentirebbero in tempi rapidi di manipolare selettivamente il genoma della vinifera con riferimento al solo materiale genico strategico per il carattere di resistenza; tale procedimento, che la Corte di Giustizia UE ha equiparato agli OGM, è però totalmente estraneo alla filosofia alla base del biologico; esistono concreti rischi che la pressione esercitata dal materiale resistente nei confronti delle popolazioni di peronospora sfoci nella selezione di popolazioni che ‘rompono’ tale resistenza, soprattutto se essa è basata su singoli geni (come inizialmente nel caso di Bianca), rendendo di fatto vano il lavoro di miglioramento (la resistenza genetica non è mai definitiva). Siccome la vite, soprattutto se coltivata con metodo biologico, risulta la specie maggiormente trattata con rame, abbiamo deciso di riportare le seguenti considerazioni: Conseguenze dell’abbandono del rame nel vigneto a coltivazione biologica Il destino ambientale a lungo termine del rame nel terreno è effettivamente incompatibile con i principi dell’agricoltura biologica in termini di sostenibilità. Difficile, al momento, però immaginare la difesa antiperonosporica nel vigneto biologico senza la disponibilità dei prodotti che hanno come principio attivo lo ione cuprico (Cu2+): solfato nella formulazione commerciale della poltiglia bordolese, solfato tribasico, idrossido, ossido, ossicloruri (essi presentano leggere differenze in termini di persistenza e prontezza d’azione). Ciò alla luce dell’importanza delle infezioni di peronospora (Plasmopara viticola) su tutti i vitigni di Vitis vinifera, in relazione anche ai modelli che lasciano intravedere come i cambiamenti climatici favoriranno ancor più le infezioni di questo patogeno. Uno dei fattori chiave che hanno determinato il successo del rame è la pressoché totale impossibilità da parte dei patogeni di sviluppare popolazioni resistenti, stante la complessità del meccanismo di azione multisito. Al rame sono attribuiti anche altri importanti ruoli nel vigneto: (a) esercita un indiscusso ruolo nel contrasto ad altri patogeni, generalmente considerati ‘minori’, ma capaci, in determinate situazioni, di assumere rilevanza, per non parlare del rischio di introduzione di ‘nuovi’ agenti al momento non presenti; (b) facilita i processi di lignificazione dei tralci erbacei, a fine estate. Si consideri che l’agente della peronospora è un micidiale aggressivo “patogeno d’attacco”, nei confronti del quale i principi delle “buone pratiche” – peraltro mai messi in discussione – quali la appropriata scelta cultivarietale, interventi finalizzati a favorire la biodiversità e la conservazione della fertilità e a gestire il vigore e il microclima della pianta, sembrano svolgere ruoli marginali, lasciando inevitabilmente all’intervento chimico diretto la responsabilità di difendere il raccolto. E la peronospora si introduce nella foglia molto velocemente e, in assenza di un valido prodotto protettivo (di contatto, efficace e con prontezza d’azione), dopo la penetrazione può essere in qualche modo contrastata soltanto con prodotti ad azione sistemica. Conclusioni Nonostante l’impressionante mole di progetti che nel recente passato sono stati attivati sul tema delle alternative al rame, questo metallo rappresenta tuttora per la viticoltura biologica un’arma indispensabile per la difesa dalla peronospora e le attuali conoscenze scientifiche non offrono alternative valide ed affidabili. Le altre molecole oggi disponibili necessitano ancora di approfondite sperimentazioni. Si sottolinea la necessità di un data base completo circa l’uso del rame in agricoltura, che sia punto di riferimento per ricercatori e agricoltori e che metta al centro l’ottenimento di piante resistenti alle malattie principali. Se vogliamo continuare a fare l’esempio della vite dobbiamo sottolineare che il patrimonio viticolo nazionale è un bene unico, assolutamente da proteggere; per raggiungere questo obiettivo lo strumento genetico appare fondamentale. Appare di primario interesse anche il recupero del rame utilizzato, finito “fuori bersaglio”; con una agricoltura di precisione o modalità studiate ad hoc, si può tendere ad un riuso del rame in modo economico e circolare. Per migliorare l’impiego del Cu, ma soprattutto per mettere a punto metodi alternativi al rame stesso, serve molta ricerca, possibilmente condivisa dalle aziende agricole, quelle stesse aziende alle quali va riconosciuto che nel corso degli ultimi 20 anni hanno ridotto l’uso del rame fino all’ 80%.
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Ignacio Silva. Revista Olimerca.
Origem: Ignacio Silva. Revista Olimerca.